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La paura di vincere
Può sembrare paradossale, ma è talmente ricorrente la così detta “sindrome da paura di vincere” che chiunque pratichi ambienti sportivi ne conosce il frequente manifestarsi; proprio sul più bello, quando l’opportunità di affermarsi vincitori si presenta con altissime probabilità, l’atleta si spegne inspiegabilmente concedendo il sorpasso all’avversario.
E’ naturale e inevitabile interrogarsi su come ciò sia possibile
e su come può uno sportivo agonista, che per definizione anela miglioramento, affermazione e vittoria, avere poi la paura di vincere. L’obiettivo che ci proponiamo in questa sede è quello comprendere detto fenomeno evidenziandone le dinamiche nevrotiche che ne sono alla base.
In diverse occasioni abbiamo sottolineato come, molto spesso, ciò che volgarmente definiamo paura in realtà è soltanto una reazione ansiosa in quanto la prima è una reazione sana ed auspicabile di fronte ad un pericolo reale incombente mentre la seconda, pur avendo le stesse caratteristiche psicofisiologiche della paura, si attiva di fronte ad un pericolo immaginato dal soggetto e quindi è solo fenomeno di ansia disfunzionale e patologica.
Tenendo presente che la nostra mente, per legge di natura, elabora sempre strategie psicologiche finalizzate a proteggerci e preservarci da danni o pericoli vari, ci chiediamo qual è, dall’ottica della nostra psicologia, la presunta funzione positiva della “paura di vincere”. Per comprendere la logica di detto provvedimento nevrotico va tenuto presente che durante la crescita, nell’età della formazione dell’IO, le esperienze che il soggetto fa in relazione al mondo esterno costituiscono materiale altamente significativo per la determinazione del valore personale altrimenti detto autostima.
Dato l’egocentrismo infantile, se le esperienze soggettive sono positive ed appaganti, l’IO stabilisce: io valgo, io sono potente, io posso etc., se viceversa sono frustranti e deludenti, l’IO elabora: io non sono all’altezza, io non valgo etc. dando luogo all’inevitabile conclusione inconscia di buona stima di sé o bassa autostima. E’ opportuno sottolineare che Il processo sopra descritto non è di natura volontaria e cosciente, ma, anzi, totalmente inconscio e pertanto sconosciuto allo stesso interessato.
Sottolineiamo che nell’esperienza umana è implicito come il progredire, l’acquisire nuovi titoli e occupare posizioni di maggiore prestigio (titoli sportivi, laurea, promozione) comporti l’assunzione delle responsabilità scaturenti dal salto di qualità di turno; questo è il motivo per cui, a livello inconscio, quando l’IO è improntato sulla scarsa autostima, scatta il provvedimento nevrotico di evitare accuratamente il rischio di assumersi delle responsabilità che diventano nella fantasia di dimensioni insostenibili.
Il soggetto, non può comprendendo le dinamiche ed il perché delle sue assurde incoerenze, generalmente si autoaccusa, diventa ostile con se stesso aumentando la disistima personale e la sfiducia in se stesso. Basterebbe in questi casi farsi aiutare da una persona addetta e competente per eliminare il meccanismo disfunzionale proprio come ci si fa aiutare per migliorare le prestazioni fisiche e i vizi di postura.
Dr.ssa Elisabetta Vellone