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La fase due
Dall’inizio della pandemia l’intero paese non vedeva l’ora di raggiungere, nonostante l’immenso dolore di molte famiglie, quel famoso Picco per poi passare alla fase due caratterizzata
dal sogno di una certa diminuzione delle restrizioni e dal recupero di frammenti di apertura in tutti i sensi.
Ora ci siamo, la fase due è in corso, ma come spesso accade “si fanno i conti senza l’oste”. In detta fase non si è tenuto abbastanza conto che l’individuo nel frattempo è cambiato e raramente in meglio.
Le restrizioni, i divieti, gli isolamenti, le esperienze di abbandono, l’impotenza, la rinuncia ad ogni sacro rito sociale, religioso, famigliare e personale; la fredda solitudine sperimentata intimamente, la sensazione di fatuità del “tutto”, i gravi disagi economici e il senso di totale impotenza a carico della fetta più ampia della società, che ancora sta elemosinando rabbiosamente aiuti dignitosi, hanno attivato nella mente le condizioni per uno stato di stress prolungato che non si esaurirà con la fine della pandemia, ma anzi inizierà proprio nella seconda e terza fase ad attivare i suoi effetti collaterali dando luogo ad una serie di disturbi post traumatici.
Il COVID 19 come tutti sappiamo a livello fisico ha tolto la vita ai contagiati non guariti, ma a livello psicologico non ha risparmiato certamente nessuno. C’è stato un momento dalla comparsa del virus, simile per ogni individuo sebbene unico nell’esperienza personale, in cui la persona ha vissuto un intimo sobbalzo emotivo; egli ha preso coscienza di essere in pericolo e conseguente paura di essere infettato. Ha subito pensato a cosa poter fare per salvarsi o salvare le persone amate, ma ha sperimentato solo un profondo senso di impotenza (traumatizzante).
In questo misto stressante di paura, impotenza, ansia, senso di solitudine profonda dove non sono mancate le notti insonni, l’irritabilità, gli attacchi di panico, l’ipocondria e lo sconforto, generando e insinuando il sentimento di rabbia dovuto alla disperazione. Una rabbia selvaggia perché senza un colpevole verso il quale indirizzarla e pertanto spesso scaricata nevroticamente su capi espiatori del tutto innocenti: figli, genitori, vicini di casa, partner, membri del governo se non addirittura verso Dio.
Ora evince in grandi e piccoli una gran frenesia di uscire dalla gabbia, ma attenzione, poiché si entrerà solo in una gabbia un po’ più grande. Il lavoro ,che era già in crisi da anni, per molti si è perso o disperso generando una flotta di gente disperata e la dove non si è perso ora va approcciato in maniera completamente diversa più assimilabile ad una vita da robot.
l’apparente miglioramento dei rapporti sociali si può tradurre presto in una tendenza all’isolamento cronico; l’individuo si abitua a tutto la diffidenza, la mancanza di contatto fisico (vissuto ormai dai più come un abuso) comporta profondi cambiamenti emotivi ed affettivi definibili uno stato di carestia mentale molto pericoloso, poiché il contatto fisico, come la storia dell’uomo ci insegna è un’esigenza primaria.
Chi come me si occupa di salute mentale è tenuto ad evidenziare i rischi legati a traumi pregressi. Non si intende in questa sede drammatizzare, ma anzi invitiamo tutti a riflettere conservando la sacra libertà di scegliere il meglio possibile in ogni situazione complessa. In questo caso “il meglio possibile” è la prevenzione per ritrovare se stessi, attivare le proprie risorse e quindi evitare le nevrotiche conseguenze di trauma non elaborato.
Dott.ssa Elisabetta Vellone